STORIE COMUNI DI UN FERRAGOSTO IN CITTA’
Ci diamo appuntamento quasi con religioso senso del dovere, come
si ritrovano all’immancabile raduno annuale gli orgogliosi proprietari
delle auto vintage, le Bianchine, le Prinz, che in un batter d’occhio
da oggetto di scherno sono diventate oggetto di culto. Nutro seri
dubbi che fra 30 anni alla sciagurata Fiat Multipla toccherà la stessa
sorte di gloria postuma, ma non siamo qui per parlare di questo.
Ci siamo tutti all’appello del Ferragosto in città in una Bologna quasi
sbiadita dalla calura, gli anticonformisti, i nostalgici, i disadattati, i
poveri, i soli, i malati. Un esercito la cui missione è sfatare i luoghi
comuni che i notiziari televisivi somministrano a raffica quando il
campionato di calcio esala l’ultimo respiro prima della pausa estiva
e la cronaca nera langue. Lo scenario è terrificante, città fantasma
come neanche Cormac Mc Carthy è riuscito a dipingere nel suo
agghiacciante “The Road”, serrande abbassate in una eternità
Tanto per cominciare la Coop è aperta e sulla grande panca
circolare gli anziani più intraprendenti socializzano godendosi l’aria
condizionata. Al forno c’è pane fresco di giornata.
Quest’anno sono arrivati i Testimoni di Geova ad animare un’estate
parca di scandali e gialli truculenti. Le guasconate cabarettistiche
del primo ministro hanno iniziato ad annoiare anche il pubblico dei
Sono andata a comprare il latte alla Coop e mi sono trovata
inaspettatamente a fronteggiare un esercito di testimoni in sobri
abiti estivi, disarmanti nella loro cortesia. Chi non li ha cacciati in
modo fin troppo esplicito quando armati della valigetta d’ordinanza
hanno tentato un abbordaggio in strada o peggio ancora hanno
suonato alla porta all’alba di una domenica ? Mentre faccio la coda
in farmacia un uomo accanto a me mugugna che lui proprio non li
può sopportare, eppure nonostante l’ostilità diffusa al Dall’Ara ne
sono arrivati più di trentamila e nuovi adepti sono stati battezzati in
Ce n’erano tanti indubbiamente, numeri da fare un pizzico di invidia
alla dirigenza del Bologna F.C. incapace ormai di trascinare folle
nelle arene, e tutti portavano una targhetta appesa al petto che
invitava a essere vigilanti perché la imminente fine del mondo non
ci colga impreparati. Sulle modalità di cessazione di attività
dell’orbe terracqueo non è dato sapere, non si sa se dominerà il
ghiaccio o il fuoco. I testimoni non vanno al cinema ad esporsi a
pericolose sollecitazioni critiche, né amano i rutilanti effetti speciali
alla Spielberg. Il mondo finirà presto e i dettagli sono cose da teste
Mentre mi arrampico verso San Luca li intravedo cantare e
inneggiare seduti sulle stesse gradinate dove un tempo ci si
emozionava per il Bologna calcio che faceva tremare il mondo.
Meno male- penso – che il Malavasi Aldo e lo Zironi Giulio, classe
1925, oggi scalpicciano lungo il portico di piazza della Pace appesi a
tarchiate donne dell’est dal volto corrucciato e la loro memoria non
è più quella dei tempi d’oro. Ci sarebbe da prenderli a bastonate
oggi quei lavativi con la casacca rossoblu, auto sportive, flirt con
divette della TV, ma nelle gambe e nel cuore niente che ricordi la
baldanza dei vecchi leoni. Eravamo più poveri e semplici, ma
Faccio due passi attraverso il parco del Vecchio Galoppatoio a
Casalecchio di Reno incrociando pensionati atletici in sella a
fiammanti mountain bike. Due signore attempate giocano a carte
sedute ad un tavolino all’ombra di un albero sotto lo sguardo
incuriosito di un pasciuto piccione urbano che deve aver scambiato i
rettangoli di cartone colorato per un potenziale pranzo e aspetta il
Quattro giovani operai comunali tagliano la siepe vicino alla Certosa
grondando di sudore sotto il sole cocente, le loro risate si sommano
al sonoro ronzio delle falciatrici elettriche. Parlano di ragazze e di
motociclette. Mi sembra una città rumorosamente viva, non la cupa
apocalisse dei telegiornali che si trasmette dal volto sempre
I piccoli chioschi dove un tempo si comprava il gelato panna,
cioccolato o limone, i sacchetti di lupini e i chewing-gum sfusi ora
vendono kebab e fast food etnico. Se per un attimo spingo il
pensiero oltre la quiete del parco mi accorgo che Bologna è piena
di stranieri, regolari e clandestini, lungo i portici a bighellonare o
affaccendati nei loro minuscoli negozi sempre aperti. Ci sono stati
giorni che percorrendo la strada verso casa ho avuto l’impressione
che ci fossero solo loro sotto le due Torri ed è una percezione che a
me, che pur ho viaggiato in lungo e in largo ed ho conosciuto città
multietniche prima che il fenomeno esplodesse anche qui, crea un
senso di profondo smarrimento. Mi accorgo infatti che in 3-4
generazioni si è dispersa la storia e la memoria e i bolognesi più
giovani che dovrebbero conservarla e tramandarla sono quelli che si
mettono in fila per una comparsata in uno spettacolino televisivo,
mangiano fastfood e sbuffano annoiati quando il Malavasi e lo Zironi
Chissà cosa pensa il Nettuno che adesso ascolta le conversazioni di
giovanotti dalla pelle d’ebano e camiciole a sgargianti colori seduti
sui gradini ai suoi piedi in queste serate estive ? Una volta c’erano
gli sboroncelli col loden che andavano a bere l’aperitivo da Zanarini.
Una volta c’erano anche gli arrabbiati con l’eskimo che alzavano il
pugno chiuso a quelli con il loden. Noi cinquantenni che allora
c’eravamo già ora facciamo fatica a seguire il convulso dipanarsi
della storia di questi tempi. A volte la nostra adolescenza sembra
retrocessa nell’immobilità del paleolitico e di quel tempo ci restano
La signora Mafalda, il mio trait-d’union personale con la storia e
fonte quotidiana di cronaca e previsioni del tempo, se n’è andata da
qualche giorno. E’ venuto il figlio a prenderla per portarla un po’ su
al fresco in collina e le sue finestre mi guardano desolatamente
mute. In questi giorni senza i suoi telegiornali, ho perso un po’ il
contatto con la realtà,non so se il Papa ha ancora il braccio
ingessato, se è stato vinto il jackpot al Superenalotto,o se
finalmente hanno trovato qualche donna a fatta a pezzi che rianimi
i cronisti in astinenza. Butto un’occhiata a Repubblica online, ma
Adesso che non c’è lei a brandire furiosamente un manico di scopa
e tirare fendenti sulla ringhiera del balcone, i pasciuti piccioni
urbani scagazzano impuniti sui suoi davanzali. Me la immagino al
ritorno scuotere la testa e iniziare a sfregare convulsamente con
guanti di gomma e brusca. Sono quasi certa che questo sia
l’argomento principale dei battibecchi con il figlio in quel di
Monzuno e immagino che tutti i giorni si faccia trovare seduta
nell’ingresso con la valigia pronta per farsi riportare nella sua casa
Alla vigilia di Ferragosto è venuta giù anche la serranda del
geometra musicofilo, figlio unico della signora Faustina, due soli
generi, country e melodico napoletano, lo stesso disco ogni
pomeriggio in un repeat ossessivo fino all’imbrunire, lui immerso in
codici e mappe catastali, noi della casa di fronte sull’orlo di una crisi
di nervi. Senza la musica in sottofondo noi dirimpettai ci siamo
sentiti un po’ smarriti e la città ci è sembrata veramente quella
La signora Faustina è rimasta sola al pianterreno con le sue
vestagliette di cotone stampato aperte sul davanti e le ciabattine
con le zeppette di sughero a lamentarsi del caldo, dei malanni e dei
tempi moderni. Anche a Ferragosto si è messa ai fornelli per
cucinare come si deve. Mi rendo conto improvvisamente che sono
proprio queste donne indefesse e il loro ruolo inossidabile a
mantenere viva la storia. Quando verranno a mancare , dalle
finestre delle case non uscirà più il profumo del ragù di carne che si
restringe sul fuoco e Bologna avrà lo stesso odore di ogni altro
Così, spento il tubo catodico della signora Mafalda e l’hi-fi
dell’irritabile pingue fan di Jimmy Rodgers, è rimasto in sottofondo
un perfetto silenzio per far risuonare il tormentone di Ferragosto.
Nei pomeriggi afosi che ho passato a bivaccare immobile sul letto,
nella sublime pigrizia dell’ora della siesta, incapace di qualunque
attività neuronale impegnativa, con Gattopiero e Gattotito a
boccheggiare sul parquet, ho seguito giorno dopo giorno il dipanarsi
inesorabile della storia del sinistro stradale della signorina Katia,
altra dirimpettaia, parrucchiera dalla voce assai sonora e a me già
nota per la tendenza ad alterchi con la madre ad orari inappropriati
e volumi altrettanto sconvenienti anche per un quartiere proletario.
Prima l’idiota che le ha tagliato la strada, ovviamente uscito illeso e
senza danni alla vettura,poi la straziante descrizione della griglia
del radiatore a pezzi ( e qui è quasi affiorata una lacrima), che deve
averle fatto maturare la decisione epocale di cambiare l’auto. Il
giorno dopo, puntuale come una puntata di Beautiful, è arrivato il
secondo episodio della vicenda. Mi sono così fatta una cultura su
modelli e prezzi della Fiat Panda, è riuscita ad andare avanti oltre 2
ore a starnazzare quando io avevo già deciso da un pezzo cosa
comprare e avevo fatto un tentativo telepatico di accelerare la sua
scelta. Nonostante il caldo che mi obnubilava i sensi ho cominciato
davvero ad appassionarmi alla storia. Insomma vuoi sapere come
andrà a finire in un anno in cui gli assassini delle mogli sono stati
catturati subito. Il giorno seguente è stato il turno delle tariffe
assicurative e qui ho fatto un po’ di fatica a stare dietro perché a
causa della mia attempata vettura negli ultimi anni per me le
pratiche si sono molto semplificate. Il quarto giorno ho ascoltato
una profonda disquisizione sulle scartoffie necessarie per
l’immatricolazione, che in Italia riesce ad essere addirittura più
complicata dell’accertamento di morte cerebrale, il tutto sempre
con quella piagnucolosa cantilena che alle 5 del mattino mi scatena
istinti omicidi. Adesso aspetto con trepidazione di vedere che colore
è ( sicuramente sfumatura giallo cacchina se la vuoi subito) e
quanto tempo passerà prima del primo graffio sulla carrozzeria e
del’inizio di una nuova serie della telenovela.
A Ferragosto si è persa Emma. E’ scappata dal trasportino sotto gli
occhi del suo padrone e si è dileguata dietro l’oratorio della chiesa
di San Filippo. Per giorni e notti i due fidanzati affranti hanno
piantonato la nostra strada seduti di fronte alle ciotole dove i gatti
della colonia vengono puntualmente a mangiare, sperando che la
loro tigrata prima o poi si facesse viva. Abbiamo provato a
consolarli, Vanna ed io, sapendo come i felini siano sì imprevedibili,
ma anche come purtroppo ogni tanto spariscano per sempre. Come
non pensare a Rossano, Similpepe, Tootsie e Silvestro, volatilizzati
nel nulla e che malgrado tutto continuiamo ad aspettare?
In questi giorni estivi ,sgambettando quasi quotidianamente verso
San Luca per esorcizzare i temuti fantasmi della crisi di mezz’età,
ho continuato ad incontrare l’uomo misterioso. Tarchiato,sulla
quarantina, baffi scuri ,pelle olivastra e fattezze sudamericane , o
forse filippine, ma è difficile capire in questo melange etnico del
terzo millennio. Sta seduto su un gradino sotto un’arcata poco dopo
lo strappo della curva delle Orfanelle, l’aspetto decoroso, non patito
a cui siamo abituati in chi vive per strada. Ogni giorno ha una
maglietta di cotone pulita. Ho pensato si chiami Angel. Sta seduto
accanto ad una borsa nera e a un sacchetto di plastica con il cibo,
come il passeggero qualunque in una stazione di autobus. Ascolta
musica da un lettore MP3 , diritto nella schiena, con un contegno
che quasi tradisce un passato di dignità sociale, i suoi occhi fissano
lontano, scavalcando la linea virtuale dello sguardo di chi passa.
Evidentemente quello scorcio di portico adesso è la sua casa e ad
ogni passaggio ho cercato inutilmente di individuare nuovi dettagli
che mi aiutassero a costruirne una storia. Mi piacerebbe sapere
perché sta lì tutti i giorni, cosa aspetta, da dove fugge, in quali
pensieri annega la sua mente durante le lunghe ore all’aperto, in
solitudine, mentre i passanti lo sfiorano.
Mi è venuto in mente un altro uomo, che ho incrociato per oltre un
anno,un clochard della stazione, anche lui un volto senza nome, ho
pensato si chiamasse Angelo e nella sua vita fosse stato un
pescatore a cui una tempesta aveva distrutto l’unica barca. Ho
sentito il bisogno con un nome fittizio di sottrarlo all’anonimità di
quel metro quadrato nei pressi del piazzale Ovest dove disteso in
un giaciglio di cartone fumava e tossiva, pacchetti di sigarette e
bombolette di Ventolin mescolati insieme agli avanzi di cibo e coca
cola. Ogni volta che passavo mi chiedevo come nella Bologna ricca
e grassa si potesse esistere così in mezzo alle scorie di una vita
andata in malora e passare inosservati davanti a tanti viaggiatori
frettolosi. A volte qualche mano caritatevole gli tagliava i capelli e
la barba grigia, ma lo sguardo non cambiava mai, lontano,
staccato, puntato su qualcosa impossibile da capire per chi vive
Poi un giorno è sparito, forse è il morto di cui hanno scritto i
giornali, una di quelle notizie di cronaca locale che occupano lo
spazio di un istante, schiacciate dalla prepotenza del calcio-mercato
o di un nuovo mostro sbattuto in prima pagina.
E’ passato il mio Ferragosto in città, ho metabolizzato i sensi di
colpa per essere riuscita solo a inventare un nome per i personaggi
di due storie fin troppo ordinarie di solitudine urbana.
Alle 19 ha ricominciato a tuonare la sigla del TG3 dal Phonola della
signora Mafalda, la chitarra di Brad Paisley è diventata la colonna
sonora dei primi pomeriggi settembrini. Tutto bene o male è
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